KOL
Da Erri a Laura
Salivano a vendere olive, pettini, aglio, acqua solforosa. Avevano grida capaci di saltare sopra gli strati di chiasso dei vicoli e far affacciare dall’ultimo piano. Badavano poco alle consonanti, che in viaggio si perdevano. Bastavano in arrivo le vocali. Voci salivano, panieri scendevano, a contrappeso. Bussavano alle porte barbieri, robivecchi, materassi, arrotini, un popolo in visita a un altro, in domicilio. Erano “ ‘e vvoce”, fitte e numerose da meritarsi la doppia v davanti alla parola. La fame no, quella era cosa grave, e il raddoppio ce l’aveva dentro lo stomaco della parola: “‘a famme”. Cresciuto a fianco delle vocali a stormo, che arrivavano pure in mezzo alle campane, ho imparato da Napoli a delegare all’udito ogni notizia. Gli occhi, pure se s’affacciavano, sbattevano in faccia al muro dirimpetto. Gli occhi non sapevano niente. E pure quando credevano di avere visto, che so, un fantasma, un ladro, un santo, un topo, era uguale a non aver visto. “È robba ‘e fantasia, se l’è sunnato (sognato)”. Invece l’udito era infallibile. Acciuffato il segnale, era creduto al volo. Da noi a sud il testimone oculare non valeva niente, ma quello che aveva sentito, anche sentito dire, era la cassazione. Sentito dire: era notizia certa. Nessuno si permetteva di chiedere: da chi? Il più mutilato, il più isolato era il sordo. Di lui non si diceva: non si diceva: non sente niente, ma: non capisce niente. L’udito era la sede della conoscenza. Perciò non mi ha fatto impressione leggere nella scrittura sacra per centinaia di volte “è scritto che Dio disse”. Che altro poteva fare per raggiungere? Doveva riversarsi nelle orecchie. Quelle erano sicure. Proibì subito di essere raffigurato, ma si fissò dentro il formato delle parole a voce, poi ripetute e scritte. In quella prima lingua di passaggio, l’ebraico antico, tutto il suono rientrava nella parola “kol” = voce. Il tuono, come il grido uscito dal corno di ariete, le sillabe degli animali, il sangue versato, il battito d’ali, la voce umana, pure la sua, venuta dalla curva dei cieli, era una di quelle. E voleva suscitare voci di risposta per poterle ascoltare. Il monoteismo è una faccenda acustica. Quella lingua antica non si permetteva di dubitare che ogni suono della natura fosse provvisto di senso e d’intenzione. Il creato era un’assemblea di voci. Le creature risuonavano per gratitudine, la divinità chiedeva canti. Scelse Davide per massimo re d’Israele, perché era il miglior poeta. Davide si sdebitò con un diluvio di salmi. Le voci sono la vita rinchiusa dentro i corpi. Einstein cavò una formula celebre per descrivere l’energia addensata in qualsivoglia massa, anche l’inerte. La ricavò da sordo, senza intenderne il canto. Ma la materia canta. Oggi i telescopi, più che scrutare, afferrano i suoni in viaggio per l’universo. Oggi si riconosce voce alla materia prima di cui siamo espressione noi viventi, piante, regno minerale. Siamo suoni, riassunti in ebraico antico da un vocabolo solo: kolòt.
Erri De Luca
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